David Byrne e la scatola delle meraviglie
Via IL Magazine
di CLAUDIO TODESCO
Fermi tutti, abbiamo un’idea. Semplice, controcorrente, geniale. Al posto di riempire ogni spazio delle sale da concerto con palchi mutanti e droni volanti ed effetti speciali, come usa nelle produzioni pop degli ultimi anni, David Byrne porta in scena una semplice, elementare, curiosa scatola metallica dentro cui lui e i musicisti che l’accompagnano si muovono come marionette elettrificate. Niente amplificatori sul palco, niente fili degli strumenti, niente visuals, niente retorica rockettara. Niente di niente. Solo dodici persone scalze che percuotono strumenti e fanno cose. L’effetto è assieme esilarante e commovente.
La performance che s’è vista agli Arcimboldi di Milano e che toccherà nei prossimi giorni Ravenna, Perugia e Trieste è una lezione sulle possibilità offerte dal pop se ci metti la testa e non solo la grana. Dodici persone ballano e suonano e sudano dentro completi grigi di Kenzo, interagendo in uno spazio delimitato da tre pareti di catene metalliche che riflettono le luci, funzionano da sipario tridimensionale, diventano elementi di scena. È uno show teatrale, coreografato da Annie-B Parson fin nei minimi particolari, con movimenti ora buffi e ora spettacolari, una celebrazione della musica come spazio collettivo che riflette e amplifica il messaggio dell’album American Utopia.
Quasi tutti suonano e nessuno sta fermo, un’idea già abbozzata nello show di Byrne con St. Vincent. Grazie a imbracature e segnali wireless, i musicisti hanno gli strumenti a tracolla, tastierista e percussionisti compresi, illuminati da un sistema di tracciamento automatico a infrarossi. È una marching band post moderna che gira su se stessa e ridisegna il palco con la propria presenza saturando l’aria di poliritmi. Suoni e movimenti sono un tutt’uno, ragione ed emozione si confondono per tutto il concerto, felicemente. Bastano una luce che s’intravede da dietro le catene o un faretto posizionato strategicamente per creare effetti esilaranti. E tutto si trasforma in ogni canzone, creando nuove geometrie e nuovi mondi. E quasi non ci si crede che i musicisti, tra cui sei percussionisti, suonino tutto dal vivo. Dentro ci sono il pop e il rock, il samba, le second line di New Orleans, il funk, il music hall e tanta, tanta New York.
Lo show inizia con il cantante, seduto da solo a un tavolino, che illustra le regioni del cervello che sovrintendono alle emozioni umane e finisce con l’elenco sconquassante delle vittime della violenza razziale negli Stati Uniti messo assieme tre anni fa da Janelle Monáe. A giudicare dal clamore con cui sono accolte le esecuzioni delle canzoni dei Talking Heads, David Byrne potrebbe girare il mondo con uno show conservatore e nostalgico. E invece questo tizio, che balla flettendo gambe e braccia come un pensionato che fa ginnastica guardando un tutorial su YouTube, ha fatto tabula rasa delle idee di performance che abbiamo assimilato negli ultimi cinquant’anni per mettere in scena un racconto inedito sull’alienazione degli individui e il conforto offerto da una comunità. E insomma, s’è messo in testa di riscrivere le regole del concerto rock. Un’altra volta.